mercoledì 27 aprile 2011

Il diavolo ha fatto le pentole, qualcuno solleva i coperchi


Se ne parla troppo, tuttavia non se ne parla per niente:
http://www.newsweek.com/2011/04/17/fast-track-saint.html

E questo è il fiore


Le parole "libertà" e "democrazia" sono così abusate che mi fanno venire un po' di nausea. Purtroppo.

E poi, in verità, il 25 aprile penso prima di tutto a mio nonno.

Avevo questo nonno che è stato un giovanotto impegnatissimo, che lottava fino alla incoscienza per cambiare il mondo.
Ed è andato avanti ad essere impegnatissimo e a lottare per quello in cui credeva fino a che gli è calata una patina ingrata sulla mente sempre fervidamente attiva.
Mio nonno per me è un eroe, come tanti altri nonni partigiani, come quelli che per la stessa causa sono caduti di morte violenta, soli, senza nemmeno vedere il loro sogno concretizzato.

Di fatto, la mia generazione è l'ultima ad aver avuto nonni eroi della lotta per la Liberazione. Ragion per cui dobbiamo impegnarci a passare il testimone.

Come? Boh. Ci possiamo sbizzarrire. Io ho un amico bravo e bello che si chiama Dario Leone e che lo fa a Teatro.

domenica 24 aprile 2011

Un paese lontanissimo

“Ai tifosi dovrebbe interessare che sono un giocatore tecnico e non velocissimo, se mi schierano in difesa o esterno di centrocampo, e non con chi vado a letto”. Anton Hysen

“Ho avuto tra 600 e 700 donne”. Antonio Cassano

Diversità.

“Non ho niente da nascondere, ho fatto coming out per poter vivere me stesso alla luce del sole. Certo vivo in Svezia, un Paese ateo e liberale, una scelta del genere in una nazione cattolica come l’Italia sarebbe stata più difficile”. Parola di Anton Hysen, giovane e bellissimo calciatore svedese dello Utsiktens BK, il di lui padre è un ex giocatore della Fiorentina, un allenatore e un commentatore sportivo.
Certamente il ragazzo sa di cosa parla. E infatti ha ragione.

Solidarietà a tutti quei calciatori italiani che non possono provare lo stesso senso di grande liberazione e verità nel contatto con sé stessi, con i propri amici e la propria famiglia.

Il nostro paese machista è disposto a tollerare uno stilista, un visagista, un artista, un designer gay o bisex, ma non a perdonare un calciatore che non approfitti della propria visibilità ed esibita mascolinità per andare con tutti quei tipi di donne che al tifoso medio non sono accessibili.



“Noi di Ikea la pensiamo proprio come voi: la famiglia è la cosa più importante […] quello che cerchiamo di fare è rendere più comoda la vita di ogni persona, di ogni famiglia e di ogni coppia, qualunque essa sia». Referente IKEA

“Lo spot IKEA è offensivo, di cattivo gusto. L’IKEA è libera di rivolgersi a chi vuole e di rivolgere i propri messaggi a chi ritiene opportuno. Ma quel termine, famiglie, è in aperto contrasto con la nostra legge fondamentale, che dice che la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio”. Carlo Giovanardi

Che vergogna. Vado subito a scusarmi con il portatutto Komplement, per sineddoche.

Non credo che Giovanardi abbia a cuore la lettura letterale della Costituzione. Credo piuttosto che sia così fantasioso da immaginare quei due ragazzi puliti, liberi e sereni impegnati in peccaminose sodomie.

Anche perché fa parte di un governo che ha molto più a che vedere con le peccaminoserie che con la Costituzione.

mercoledì 20 aprile 2011

Ma i sardi sono meglio di quello che leggono

Sembra che certa stampa sia andata a lezione da Goebbels.

Un esempio di campagna mediatica che istiga alla peggiore xenofobia facendo leva sulla povertà e l’invidia? Quella di oggi dell’Unione Sarda.

Le locandine fuori dalle edicole titolano: “Ogni migrante costa 34 euro”.
Sì, in una realtà e in un momento in cui molti si scannerebbero per 34 euro la settimana.

Mi sono fermata in due edicole in mattinata: ho trovato un gestore che non l’ha esposta, un altro che mi ha detto che non l'avrebbe voluta esporre.

I due loro punti di vista, che coincidono in pieno col mio, suonavano più o meno così:

Le migrazioni sono fenomeni ciclici e normali, inarrestabili. Ci sono sempre state e sempre ci saranno, servono a non farci marcire il sangue, a darci stimoli nuovi e a progredire.
Se non riusciamo a regolare il processo, ci troviamo ogni volta nel panico con una massa di disperati tra i quali qualcuno diventa delinquente e qualcuno lo è già e si confonde nella massa.
Dobbiamo trovare il modo di governarle, una volta per tutte. Lavoriamoci seriamente, ne vale la pena più di ogni altra cosa.

lunedì 18 aprile 2011

C’è chi si burlesqua di noi

Non sappiamo più cosa inventarci con la concorrenza che c’è là fuori.

Non crederete che si facciano i corsi di burlesque per sé stesse. Che ci si doti di tutto quell’armamentario per stare in casa da sole.

Siamo ricadute nella trappola, care mie. Non basta più essere brave sul lavoro, in casa, ai fornelli, a letto, adesso dobbiamo anche imparare a fare lo show tutto intorno. Prima i corso di pole dancing (perché proprio non ci veniva in mente nient’altro per tenerci in forma) e adesso il burlesque, che reso celebre da artiste di tutto riguardo, si è propagato come una tamarrata qualunque spopolando fra le donne di città nell’età della consapevolezza.

Sono questi uomini d’oggi cresciuti con le ragazze cin cin e martellati da ogni genere di messaggio sessuale a volerci così?

Siamo noi che ci siamo convinte che per essere donne complete dobbiamo interpretare anche la spogliarellista agghindata come ai tempi della bisnonna?

Lo facciamo perché ci piace prenderci in giro o perché ci stiamo facendo prendere in giro?

(Comunque, se avete un uomo che vi dedica tre minuti della sua attenzione per guardarvi togliere un guanto, cliccate qui.)

domenica 17 aprile 2011

Crescere, fra le righe

Ai primi tempi dei palazzi ero già ufficialmente goffa. Mi ritenevo fisicamente inaccettabile, ma non ero eccessivamente preoccupata della mia scarsa attitudine motoria, bastava evitare talune attività in cui peraltro altri stavano già dimostrando il meglio.

Del resto la felicità era soltanto pochi metri sopra il divano, sulle mensole dei libri dei miei genitori, dove afferavo cose di signori che si chiamavano Pavese, Cassola, Levi, Fallaci, Marquez, mentre mia mamma mi stava attentamente introducendo a Gianni Rodari e Rohal Dahl.

Anche i libri che mi venivano somministrati da mia mamma mi piacevano moltissimo, e soprattutto mi emozionavo all’odore della Biblioteca dei Ragazzi e al bel sorriso della signora che vi lavorava, quando il sabato la mia eroica genitrice ci portava me e mio fratello (attirato con la prospettiva di una pizzetta nel corso).

Ma quelli dei miei genitori, oltre alll'attrattiva delle cose da grandi, avevano frasi che spesso non capivo con parole che però suonavano benissimo, e dei personaggi affascinanti che spesso morivano per le cose in cui credevano.

Che le parole potessero dare tante possibilità e tante soddisfazioni, me lo confermò alle medie una professoressa severa e dolce, che aveva dei bellissimi occhi blu e l’aspetto che io avrei voluto avere alla sua età. Alle frustrazioni che mi davano le trasformazioni adolescenziali e gli scontri con la matematica, la suddetta contrapponeva le letture, i temi, e l’analisi grammaticale e del periodo, che mi davano insperate gratificazioni (anche se non avrei mai voluto che si sapesse).

Sempre la stessa insegnante si rivelò una insostituibile alleata, allorquando mia madre, impegnandosi in una blanda censura sulle mie letture, venne dalla stessa tranquillizzata e autorizzata a maggiore permissività.

Beati sono i tempi in cui ognuno è libero di trovare la propria strada per la felicità, gli insegnanti fanno scoprire soddisfazioni inattese, ei genitori si fidano degli insegnanti.

Cagliari e Milena


Quando ho letto i quattro libri di Milena Agus in un colpo solo (sono brevi e piacevoli) vivevo a Cagliari già da un anno, eppure la città che già avevo nell’anima era la stessa che stavo conoscendo attraverso di lei. Mi sono chiesta se mi ci sono ritrovata o se ho subito un condizionamento, sei lei è bravissima (lo è, a prescindere, secondo me) o se io sono una spugna informe.

Quello che è certo è che la città raccontata in “Mal di pietre”, “La contessa di ricotta” e “Mentre dorme il pescecane” non è sempre quella che ho toccato con mano, ma quella che ho sentito e annusato e respirato, quella che vive nei quartieri storici, fatta di persone creativamente moderne, di sopravvissuti alla decadenza, quella che insomma, Milena ha voluto raccontare, e io ho voluto tenermi nell’anima.

Quella che affascina in un modo unico, e che credo sia la splendida ambigua regina del Mediterraneo.

Un’altra cosa è la Cagliari ferma, isolata, e abbarbicata su convinzioni obsolete e sulle massonerie.

Amarcord

La primavera porta il ricordo dei tempi dei palazzi. Sono molto lontana dai palazzi, nel tempo e nello spazio, e ora gli sfarfallii e le insicurezze e i pianti di primavera sono molto più blandi, ma esistono, anche in eredità di quei momenti.

La primavera arrivava un po’ prima o un po’ dopo il cambio dell’ora, e si faceva sentire subito con l’odore di erba e la voglia di prendere la bicicletta. Con la luce di maggio, nel petto e nello stomaco avevo sempre un tamburo. Così anche le mie amiche, quelle di scuola. Certe volte con l’Uni Posca rosa scrivevamo sui lampioni anche due o tre nomi diversi nella stessa settimana.

Ma non era facile la vita ai palazzi, specialmente a primavera, c’erano sempre dei problemi: fiottavo lacrime per mille motivi, e mi sentivo brutta e un po’ fuori posto.

I genitori, ai tempi dei palazzi, erano lontani e un po’ isterici, niente a che vedere con i due bei sessant’enni sereni e giocosi che sono oggi.

I maschi prendevano sempre in giro ed erano cattivissimi, sia che si presentassero sotto forma di fratello, che di compagno di classe, corteggiatore o ragazzo dei desideri.

Per destino crudele, le ragazzine dei palazzi erano le più belle e ammirate del quartiere, forse della città. Io non c’entravo proprio niente: non ero mai io la più bella, la più alta, la più corteggiata, la meglio vestita, la più citofonata, la più brava a danza, la più brava a pattinare, a disegnare, la più atletica, la più libera di uscire la sera, la migliore al mondone o al gioco dell’elastico.
Non ci provavo nemmeno a competere con quei boccioli di fascino così performanti. Tutte avevano almeno 4 assi che io non avevo.

Quello in cui eccellevo era invece leggere molto velocemente, mangiare i biscotti del Mulino Bianco, inventarmi storie (non favole, balle) e imbambolarmi davanti alla finestra della mia stanza.

Dalla quale finestra vedevo ragazzi un pochino più grandi che si baciavano, anche sdraiandosi sull’erba, infuriando le signore anziane dei palazzi.

Ma più che altro sostavano a lungo in gruppetti, andavano e venivano, fumavano, e si facevano delle iniezioni.
Io non lo sapevo, e secondo me nemmeno loro, che si stavano uccidendo.

sabato 16 aprile 2011

Se sei così alza la mano


Un altro sforzo cinematografico sulla scalata dell’uomo medio un po’ sfigato alle gioie della solita superbona straniera. Italiano, sogna che ti passa.

Inizio e fine, e viceversa

La fine è quella del processo Thyssen: una sentenza da festeggiare come un inizio di una giurisdizione che punisce come killer (eventuali) i responsabili delle aziende che danno la morte.

La fine è anche quella di un ragazzo che inizia a lavorare a 23 anni mentre studia Farmacia, e che parte da una povera isola del sud verso una raffineria di un’altra ancor più povera isola del sud con un contratto di poche settimane, e finisce gasato da un impianto che qualcuno è stato così negligente o pigro da non bonificare.

Vai a prendere il colpevole.

Nei bar dove lavorano e prendono il caffè le mogli degli operai della raffineria si parla di “scarsa attenzione”. Si parla di “permesso di lavoro”. Si parla di “consapevolezza del rischio”. Discorsi di persone che non hanno quasi mai una scelta.

Chissà quali criteri avranno fatto vincere la gara d’appalto all’impresa che poi ha assoldato il ragazzo per il tempo stretto necessario a svolgere l’ingrato compito, chissà se e come le certificazioni in possesso della stessa impresa erano in regola, chissà se i costosi dispositivi di rilevazione erano perfettamente funzionanti, chissà quale formazione sulla sicurezza avrà ricevuto il lavoratore per un mese, chissà chi gli ha dato il via a fidarsi di quell’impianto che gli ha sputato addosso veleno mortale, chissà se si è chiesto se era meglio obbedire o perdere il lavoro e tornare a casa. Chissà che altra scelta aveva, a casa, in Sicilia.

So che sarebbe un buon inizio se almeno i sindacati dipanassero direttamente questo tipo di questioni, oltre a creare sloganistica.