È il dolore insuperabile che si ha constatando la distanza da quel che siamo veramente. Cioè animali, natura.
È toccare la ingiustizia profonda, il male che sappiamo di fare ai nostri simili animali piante e esseri umani.
È anche il rimpianto della felicità.
È una gioia colorata di tamburi e un eco di colonialismo che fa passare la voglia di ridere.
È una malattia che è una volta e per sempre, come tutte le consapevolezze, e come la malaria.
La nostalgia di un luogo dove è difficile restare, mangiare, dormire. Di piante giganti, di animali ingombranti, abitudini crude, morbi, odore di pelle e di ogni secrezione umana, denti veri, ferite vere, calli, cielo colorato, erba miracolosa, piogge esagerate, sole che distrugge,spiriti e spiritualità, terra rossa che vive sotto i piedi.
È anche una domanda: è lì che dovrei essere, perché è giusto è quello il mio posto, è il paradiso? O è lì che vorrei essere, per cercare di espiare le colpe della nostra piccola parte di umanità grassa, è il purgatorio?